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LA LEGGE DEL VALORE COME IDEOLOGIA (3.0)
VALORE E RAPPORTO SOCIALE
Dai classici - Marx incluso - la teoria del valore-lavoro viene piuttosto postulata che dimostrata. Che le merci vengano in generale scambiate al loro valore viene in sostanza dato per acquisito in base al fatto empirico che ciò che è all’origine della loro esistenza come merci è il lavoro. Ma ciò non implica affatto che le merci vengano scambiate al loro valore. Innanzitutto viene subito ammessa una eccezione, che però comprende il solo caso interessante, la società di classe, cioè quello nel quale i prezzi differiscono dai valori in quanto comprendono, oltre al lavoro, il plusvalore. Infatti nel prezzo della merce è incluso non solo il costo del lavoro ma anche la rendita, in tutte le sue forme, le principali essendo quella industriale o profitto e quella fondiaria. Per cui già Smith definisce il prezzo come somma di redditi. Marx parte da tale definizione, la “formula trinitaria”, per dimostrare che il lavoro è l’unica fonte del plusvalore e che salario non è un reddito, se per reddito si intende una partecipazione al plusvalore. Anzi il lavoro come salario è parte del capitale. In realtà, come già adombrato da Marx che però mantiene una concezione quantitativa del valore-lavoro, il valore in quanto costo di produzione è essenzialmente un rapporto sociale, e come tale è già determinato nei rapporti di forza tra le classi nella sfera della produzione, rapporti che definiscono i costi di produzione. Infatti le classi si scontrano su tale terreno come coalizioni monopoliste dei fattori di produzione ed in tali conflitti definiscono i costi di produzione, che quindi sono dati a priori. Solo successivamente nella sfera della circolazione tali costi vengono computati in termini di lavoro, denaro oppure utilità marginale. Ma può essere utilizzato qualunque altro parametro, perché si tratta di una operazione ideologica, volta a giustificare a posteriori un dato di fatto. L’altro fattore che influenza i prezzi sono le forze produttive, rappresentate negli schemi di riproduzione dai coefficienti tecnici, le quali costituiscono un fattore oggettivo che resiste allo scostamento dei prezzi dai livelli di equilibrio. Ma se i coefficienti, considerati staticamente, determinano univocamente i prezzi, questi ultimi, essendo in anche risultato della lotta di classe, a loro volta influenzano i coefficienti, cioè le forze produttive. Infatti la lotta di classe produce sempre ristrutturazioni dell’apparato produttivo, per adeguarsi ai costi, che sono sempre un elemento politico. Quindi in generale il valore è il risultato finale dell’opposizione tra lotta di classe e forze produttive, cioè appare determinato come punto di equilibrio instabile tra un fattore soggettivo, la lotta di classe e uno oggettivo, le forze produttive esistenti o potenziali. Ma la lotta di classe deriva dal rapporto di produzione è questo dalle forze produttive, per cui in definitiva il valore è determinato dallo sviluppo delle forze produttive, come deve essere secondo il materialismo storico.
Si tratta quindi di una concatenazione di cause. Ma il fenomeno è più complesso, perché entra in gioco con un ruolo fondamentale l’ideologia. Considerando il primo passaggio il prezzo è determinato immediatamente non tanto dal lavoro ma dal rapporto di produzione tra le classi, che si presenta tuttavia non per quello che è, cioè un rapporto di dominio, ma come rapporto di proprietà. Sono questi rapporti a determinare la formazione del prezzo, quello al quale il lavoro viene retribuito al livello della pura sopravvivenza socialmente definita, quello della componente naturale, definito dal monopolio dei detentori dei fattori naturali, come anche quello che nasce dal monopolio dei fattori artificiali, quali macchine, edifici, ecc. Quindi i rapporti di proprietà non vanno considerati soltanto base del rapporto di scambio, che in tal modo è visto come sotterfugio per lucrare nella transazione, per comprare il lavoro ad un prezzo inferiore al suo valore, ma come l’oggettivazione di un rapporto sociale asimmetrico di dominio, nel quale la volontà dello scambista più debole viene coartata. In breve, i prezzi sono definiti dalla lotta di classe, meno dalla competizione all’interno della classe, in quanto la comunanza di interessi in opposizione alla classe rivale deve alfine prevalere. Infatti all’interno di ogni classe si formano coalizioni che limitano la concorrenza interna ed esaltano quella esterna, conferendo alla classe il carattere di monopolista di determinati fattori di produzione, la sua arma fondamentale nella lotta di classe.

VALORE E FORZE PRODUTTIVE
Il secondo passaggio, cioè la seconda mediazione, è conseguenza del fatto che il rapporto di proprietà, come anche quello di scambio cui dà origine, è un rapporto giuridico, quindi ideologico in quanto presuppone che i soggetti agiscano in piena libertà di scelta, ciò che in una società di classe non è mai vero (Marx, Ideologia tedesca, Editori Riuniti, p.68). Quindi la proprietà deve essere a sua volta fondata su un altro rapporto materiale. Due le possibilità: o il rapporto con le forze produttive, oppure la forza militare. Quest’ultima era l’elemento determinante nel passato, quando la sottomissione al volere della classe dominante era imposto esclusivamente con la forza. In tal caso, poiché il rapporto di produzione materiale è un rapporto immediatamente coercitivo, allora l’idea stessa di proprietà diviene superflua e il dispotismo non ha bisogno di mediazioni ideologiche. Diversamente vanno le cose sotto il capitale quando il rapporto tra le classi diviene prevalentemente economico, cioè quando la coercizione trova il suo fondamento nel modo stesso in cui le classi partecipano alla produzione. Allora la mediazione del rapporto di proprietà diviene essenziale, così come il rapporto di scambio su di esso fondato, necessario per mascherare la reale natura dispotica del rapporto di produzione in modo che appaia libero. Il dominio di classe diviene allora un fatto strutturale e non ha bisogno di supporti esterni quali la forza militare o di ideologie non direttamente economiche quali la religione.
Infatti, nel modo di produzione capitalista, la circostanza che il capitalista intervenga direttamente o indirettamente nel processo di produzione, e il carattere stesso del processo, cioè la sua complessità e il suo gigantismo crescenti, tutto ciò fa sì che il rapporto di proprietà abbia la sua radice in una ragione tecnica. In effetti il fondamento della proprietà capitalista sta nel fatto che la cooperazione manifatturiera, la forma assunta dalla divisione del lavoro nel capitale, cioè la divisione del lavoro parcellare, necessita di una direzione centralizzata, compito che il capitale è in grado di assumere e non la forza lavoro. Quindi il capitale non domina il processo produttivo perché è proprietario ma è proprietario perché domina il processo di produzione, cioè ne controlla e gestisce la tecnologia, anche se non in prima persona.
Inoltre, poiché la complessità del processo stesso che sfugge al controllo della direzione capitalista per il capitale è necessario che la gestione sia al contempo centralizzata e decentrata. Pertanto il dispotismo capitalista, che realizza una gestione verticistica deve cedere di fronte alla necessità di un rapporto che lasci l’iniziativa nella gestione dell’organizzazione del lavoro ai subordinati. Ciò implica ulteriormente un rapporto di produzione non coercitivo, o che almeno non venga percepito come tale. Tale circostanza allude all’obsolescenza dal capitale come modo di produzione e annuncia il passaggio al comunismo.
In questo rapporto di dominio indiretto tra capitale e lavoro svolge un ruolo fondamentale l’egemonia intellettuale che sempre accompagna quella economica, per cui il pensiero dominante è sempre quello della classe dominante. Ma tale pensiero deforma la realtà, ha cioè carattere ideologico. D’altra parte nelle società precapitaliste tale pensiero aveva contenuto economico solo indirettamente, mentre in quella capitalista il suo nucleo essenziale è proprio il pensiero economico. Suoi pilastri portanti sono fondamentalmente lo scambio, l’idea di proprietà che lo permea e le varie teorie del valore che su tale idea sono state costruite. In esse il valore dei beni viene determinato in base a rapporti che in realtà sono secondari: domanda e offerta, concorrenza, utilità. Oppure in base a rapporti oggettivati quali il lavoro salariato. Ciò determina nella percezione degli individui un completo rovesciamento delle propria coscienza dei rapporti sociali ed economici in particolare. I rapporti economici vengono percepiti come fatti oggettivi, si ha cioè una reificazione del rapporto sociale e quindi il fatto che i prodotti del lavoro e il lavoro stesso si presentino come merci di valore determinato viene considerato alla stregua di un fenomeno naturale ineluttabile. Mentre, al contrario il fatto che i rapporti di scambio siano rapporti di classe tende ad essere eclissato dall’ideologia dominante.
Soprattutto non viene percepito il fatto che i rapporti di scambio e di proprietà sono già determinati al livello della produzione, in dipendenza dello sviluppo delle forze produttive. Per cui agli individui sfugge il carattere oggettivamente coercitivo di questi rapporti. Ma non solo. Viene ignorato il rovescio dialettico di tali rapporti, cioè il fatto che l’esistenza di rapporti di scambio implica quella di rapporti di cooperazione nella produzione, cioè una divisione del lavoro, relazione che esiste oggettivamente e cui tutti sono obbligati a sottostare, pur non essendone pienamente coscienti. Quindi viene pure cancellata dalla coscienza la contraddizione inerente a tale rovesciamento, cioè che una forma superiore di forza produttiva del lavoro sociale venga posta e sviluppata in condizioni che costituiscono un ostacolo al suo sviluppo. Così pure viene ignorato dal capitale il ruolo attivo del produttore nel senso del non adeguamento al comando capitalista, sia nel senso di una opposizione ad esso, sia come partecipazione positiva al processo produttivo in quanto realizzazione personale.

FORZE PRODUTTIVE, RAPPORTO DI PRODUZIONE E IDEOLOGIA
I rapporti di produzione in generale e quelli di proprietà in particolare rispecchiano il ruolo delle varie classi nel processo produttivo e quindi sono determinati dallo sviluppo delle forze produttive. Ma qual è il contenuto di tali categorie e il loro rapporto con l’ideologia ? Quando si parla di forze produttive e si vuole comprenderne la natura occorre innanzitutto tener presente che la loro denominazione completa è forze produttive del lavoro sociale. Quindi la sola altra categoria che si contrappone ad esse sono le forze produttive naturali. Infatti si ammette che le uniche forze produttive di beni sono il lavoro e le forze naturali, distinzione del resto solo concettuale perché il lavoro è sempre trasformazione della natura mediante la natura stessa. In tale concezione unitaria appare chiaro che tra le forze produttive assume un ruolo essenziale la divisione del lavoro. Infatti appena ci si allontana dallo stato naturale cessa l’autosufficienza dei gruppi sociali naturali (famiglia, clan, tribù), quindi il rapporto con la natura diviene collettivo. Ciò implica la divisione del lavoro, ma questa esiste solo nella misura in cui vi sono relazioni di scambio tra gli individui, fosse anche solo lo “scambio silenzioso”, che si svolge tra comunità primitive isolate. Quindi la grande forza produttiva è la divisione del lavoro in quanto lavoro sociale. Ad un primo sguardo sembra che le forze produttive siano non solo il lavoro sociale ma anche i mezzi di produzione. Ma a partire dalla comunità primitiva fondata sulla produttività naturale della terra fino ad arrivare alla grande industria capitalistica il lavoro sociale è la vera grande forza produttiva, e la sola non naturale, in quanto produce i suoi presupposti, cioè i mezzi di produzione, le condizioni del lavoro sociale create dal lavoro sociale stesso.
Se si identifica le forze produttive con il lavoro sociale la distinzione tra forza produttiva e rapporto sociale di produzione diviene fluida. Infatti il rapporto di produzione può presentarsi in forme diverse: tecnico, giuridico, politico, economico, militare, culturale. Si tratta sempre di rapporti di produzione lato sensu, perché tutti hanno, direttamente o indirettamente il fine primario di realizzare la produzione, sia permettendo al rapporto tecnico di esplicarsi, sia incentivando lo sviluppo e l’oggettivazione delle forze produttive. Il primo rapporto ha carattere funzionale e si esplica nella divisione del lavoro come dipendenza delle attività produttive parziali le une dalle altre, in vista della realizzazione del prodotto finale. Quindi costituisce propriamente il vero rapporto di produzione. Gli altri lo sono solo indirettamente in quanto sono rapporti gerarchici, cioè rapporti di potere in cui la dipendenza degli individui è determinata da un grado di coercizione non riconducibile direttamente ad una attività produttiva. Il rapporto giuridico mette in relazione gli individui in ragione della proprietà; quello politico si stabilisce tra classi sociali in base ad un patto sociale; quello economico regola le transazioni fra gli individui in quanto soggetti contrattuali; quello militare definisce i rapporti tra individui che dispongono di forza fisica; quello culturale concerne lo scambio di prodotti intellettuali. Quindi, rispetto al rapporto tecnico gli altri rapporti sono ad esso subordinati, cioè senza movimento autonomo, senza storia propria. Qui è il luogo di nascita dell’ideologia. All’interno di questi rapporti senza autonomia gli individui sono spinti ad attribuirgliene una, cioè sono soggetti alla tendenza di invertire l’ordine causale rispetto al rapporto primario, quello materiale o tecnico. Per cui sembra che i rapporti di produzione siano determinati dalla forza militare, dalla posizione sociale nella stratificazione delle classi, dalle norme giuridiche, dalla proprietà, dalla potenza delle idee stesse. I rapporti secondari costituiscono la sovrastruttura propriamente detta, mentre il complesso delle forze produttive, che include i rapporti tecnici costituisce l’infrastruttura.
Esaminato il rapporto di produzione è ora possibile definire il lavoro sociale come forza produttiva sociale. Esso è costituito dalla somma di tutte le abilità e conoscenze tecniche possedute dai produttori sia singolarmente che collettivamente come patrimonio comune. Mentre gli strumenti di lavoro costituiscono l’oggettivazione delle forze produttive sociali, cioè di quel lavoro sociale il cui la cui produzione è differita nel tempo. Quindi, quando si parla di oggettività delle forze produttive si parla di facoltà umane che sono un prodotto storico e sociale, quindi di qualcosa che si evolve nel tempo. Si tratta perciò di una oggettività relativa ad una determinata epoca storica, cioè del contesto storico determinato che in ogni epoca è dato quale condizione di qualsiasi trasformazione.
Il nesso tra forze produttive e rapporto di produzione è al contempo di inclusione e differenziazione. Infatti il carattere sociale delle forze produttive implica che il rapporto tecnico sia al contempo rapporto di produzione e forza produttiva. Quindi il rapporto primario, in quanto oggettivo, è parte delle forze produttive sociali e proprio in quanto tale è il vero rapporto di produzione. Tuttavia i rapporti secondari non sono in nessun modo sottoprodotti inutili e parassitari della struttura, bensì hanno la funzione di realizzare socialmente il rapporto primario, cioè di renderlo compatibile con le gerarchie sociali. Ma per svolgere tale funzione devono assumere carattere ideologico, in quanto essa si realizza mediante occultamento della realtà. Cioè le ideologie hanno la funzione di occultare la natura sociale del rapporto primario, quello tecnico, il più vicino alle forze produttive, che pertanto può identificarsi con esse. La funzione della sovrastruttura, le famose professioni “improduttive” scoperte da A. Smith sulle quali esercita spietatamente la sua ironia, nel suo complesso è quella di tradurre in norme giuridiche e morali, cioè in generale in regole sociali, i rapporti di produzione oggettivi e necessari derivanti dalle forze produttive esistenti. Tali norme sono il punto di mediazione tra le necessità oggettive della produzione, quindi delle forze produttive, e i condizionamenti sociali, cioè dell’esigenza di salvaguardare i ruoli sociali delle classi al di fuori della produzione, ma soprattutto la loro posizione nella scala dei redditi. Imperativo questo che si scontra con le esigenze della produzione e trova il suo punto di equilibrio variabile, secondo lo sviluppo delle forze produttive. Oppure può non trovarlo affatto, nel qual caso si apre un’epoca di instabilità sociale che segna il tramonto di una formazione sociale e l’avvento di un’altra nella quale è possibile trovare un punto di equilibrio tra oggettività produttiva e rapporti tra classi. Quindi, in ultima analisi, la sfera dei rapporti di produzione infrastrutturali si pone nel lungo periodo come necessaria, e il piano dei rapporti infrastrutturali, avente in generale carattere ideologico, come transitorio. Questo non significa che la struttura sia immune dalla lotta di classe. E’ noto che lo sviluppo della tecnologia è condizionato dai rapporti di forza tra le classi. Infatti nel capitale il processo lavorativo è condizionato dal processo di valorizzazione, per cui se il primo viene ostacolato l’insufficiente valorizzazione impone un ristrutturazione del primo. Così in particolare si spiega il caratteristico dualismo dei rapporti di produzione capitalistici, e in particolare nei rapporti economici. Da una parte il rapporto economico si scambio, una transazione che ha luogo tra liberi proprietari di merci, che pone l’uno come lavoro salariato libero, l’altro come capitale da valorizzare. Dall’altra rapporto tecnico di cooperazione coercitiva, cioè realizzata mediante un rapporto politico di subordinazione, mediata da una disuguaglianza economica fondata sull’asimmetria della proprietà, e sullo sfondo la minaccia teorica ma talora ben concreta, del ricorso alla forza militare. Qui agisce la legge del valore in funzione ideologica. Qui il rapporto di lavoro salariato, con il suo carattere di rapporto economico e giuridico, che pone il lavoratore sullo stesso piano del capitalista in quanto libero ed uguale proprietario ed anche come lavoratore individuale, tale rapporto dissimula la realtà che è quella di un rapporto di cooperazione coercitiva, negazione dello scambio individuale e libero, ponendo così un rapporto di dominio che cancella lo scambio come rapporto libero.
Quindi rapporto di proprietà e rapporto di scambio sono strettamente connessi. Sono entrambi rapporti fondamentali in quanto regolano il rapporto fondamentale del capitalismo, lo scambio di lavoro vivo con lavoro morto, cioè la compravendita della forza lavoro. Ma entrambi sono casi particolari di un fenomeno più generale, la reificazione.

LA REIFICAZIONE
“L’essenza della struttura di merce (…) consiste nel fatto che un rapporto (…) tra persone riceve il carattere della cosalità (…) che occulta nella sua legalità autonoma (…) ogni traccia della sua essenza fondamentale: il rapporto tra uomini.” (G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, Sugar, s. d., p.108)
Si ha reificazione quando nella pratica sociale le cose sono considerate non prodotto del lavoro sociale, ma alla stregua di semplici oggetti naturali, cioè come se fossero determinati solo da cause naturali. Poiché il lavoro, sia quello comunitario che quello privato ha sempre carattere sociale, la reificazione dei prodotti del lavoro porta con sé anche quella del loro presupposto, cioè del lavoro sociale, e in particolare nel suo aspetto di rapporto di produzione, quindi in generale quella di tutti i rapporti sociali da esso determinati e in definitiva quella degli individui stessi, che ne sono gli attori. Questo potrebbe sembrare anche il contenuto del materialismo storico, che pare attribuire alle cose il potere di creare i rapporti sociali, essendone queste il presupposto. Ma questa è solo una errata interpretazione del materialismo, a precisamente una interpretazione reificata. Infatti in essa si fraintende il carattere delle forze produttive, identificandole con i mezzi di produzione, mentre in realtà si tratta di lavoro sociale in quanto i mezzi di produzione (macchinario, edifici, scorte, etc.) non sono e non vanno considerati come semplici oggetti materiali, ma come prodotti del lavoro sociale. Il risultato della concezione reificata del materialismo storico è una visione deterministica della storia, simile alla visione statica che ne dà la borghesia. Mentre collocarsi dal punto di vista sociale significa stabilire che il lavoro sociale determina specifici rapporti di produzione come rapporti tra individui, quindi modificabili dagli stessi. Ma la visione reificata ha un suo carattere oggettivo, cioè trova in una certa misura una corrispondenza nella realtà, quindi è parte del materialismo altrimenti il materialismo stesso avrebbe carattere idealistico, attribuendo ad una semplice illusione un carattere autonomo. In effetti, da questo punto di vista, la reificazione può essere considerata determinata in parte dall’eredità naturale non ancora superata. Quanto agli oggetti naturali effettivi, essi sono reificati quando vengono colti nella loro immediatezza e considerati immodificabili, come nell’ideologia ambientalista. Ciò vale anche per i concetti quando vengono ipostatizzati ed anche per le percezioni, in quanto, come il linguaggio, sono prodotto sociale e quindi storico. (v. Kuhn, La rivoluzione copernicana, Einaudi, 1972) Tuttavia gli oggetti naturali nella loro soverchiante potenza originaria condizionano realmente la società, soprattutto alle sue origini, producendo una alienazione primitiva o naturale, e costituendo la sfera della necessità, così come si presenta immediatamente. Da essa però, tramite la creazione di una forma di socialità superiore a quella naturale, prende origine il lavoro sociale, quale strumento per superare questa condizione. Ma tale nascita è l’avvio di un processo che si identifica con l’inizio della storia, processo le cui contraddizioni determinano la reificazione del lavoro sociale, cioè la sua trasformazione in lavoro individuale quantificato, che culmina nello sviluppo del lavoro salariato. Trasformazione che segna il passaggio all’alienazione secondaria o sociale. Al contempo la comunità primitiva si frantuma, sorgono le classi e prende forma l’interesse privato. Di conseguenza nasce l’ideologia, cioè la giustificazione dell’interesse di classe, cioè dell’interesse particolare, che l’ideologia ha il compito di presentare come universale o trascendente.
In generale l’ideologia, cioè il pensiero della classe dominante, prende la forma di pensiero idealistico. Tale carattere è determinato dal fatto che nella divisione del lavoro l’attività della classe dominante assume, direttamente o indirettamente, il carattere di lavoro intellettuale. Cioè la classe dominante assume compiti direttivi in quanto si fa carico dell’organizzazione delle istituzioni, quelle preposte al culto, all’economia, alla guerra, all’amministrazione dello stato, alla politica, alla cultura. Alle classi subalterne è demandato il lavoro materiale ed esecutivo. Di conseguenza le classi dominanti sono spinte a considerare le idee come causa del movimento storico, mentre il pensiero delle classi subordinate sarà materialista e critico del precedente.
Ma con lo sviluppo storico tali correnti di pensiero fondamentali tendono a produrre una sintesi, come espressione a livello intellettuale del movimento storico che tende al superamento della società di classe. Infatti con la nascita della società borghese e il conseguente sviluppo del lavoro sociale, viene riconosciuto nei beni il loro carattere di prodotti del lavoro sociale, idea condivisa anche dalla borghesia almeno fintanto che si pone come classe progressiva. Quindi, poiché viene riconosciuto altresì che i prodotti del lavoro sono la base materiale della società, diviene evidente che il lavoro e la sua organizzazione sociale determinano il divenire storico. Ed è su questa base, a partire dallo sviluppo della tecnologia, che si manifesta quello che è il vero pensiero borghese, cioè il pensiero scientifico, tentativo di sintesi di idealismo e materialismo, solo in parte riuscito, che sfocia nel materialismo positivista.
In realtà la scienza moderna è essenzialmente frutto di una interpretazione del platonismo rinascimentale in chiave matematica e dello sperimentalismo aristotelico in senso materiale e quantitativo, quindi della validità dei metodi matematici e quantitativi nella conoscenza della natura. In effetti il metodo scientifico è costituito da un tentativo di sintesi tra empirismo, da cui il principio sperimentale come fondamento assoluto della scienza, e razionalismo, da cui l’uso della matematica come linguaggio descrittivo e strumento di indagine. Quindi la scienza moderna si configura come momento di sintesi delle due correnti di pensiero fondamentali. Ciò accade in quanto essendo il capitalismo la società di classe più sviluppata della storia, è anche l’ultima, cui succede una società che ha superato le dicotomie e le separazioni che sono all’origine delle sue fratture interne, anche nel campo intellettuale. Quindi nel suo ambito incomincia a verificarsi quella unificazione nel pensiero che è la conseguenza necessaria del superamento delle classi. Quindi il pensiero scientifico, pur essendo il pensiero della classe dominante, non costituisce una ideologia in senso assoluto, in quanto il procedimento appare legittimo quando l’indagine verte su oggetti immediati, o naturali, e quindi viene posto come metodo proprio delle scienze naturali. Ma quando tale metodo viene applicato alle scienze umane, e in particolare a quelle sociali, non può produrre che una reificazione dei rapporti sociali. Ciò significa porre le categorie sociali come oggetti ipostatizzati, quindi considerarle alla stregua di prodotti della natura, rinunciando con ciò a trattare le cose e i rapporti sociali come costruzioni umane e come tali modificabili storicamente dai loro creatori. Tutto ciò costituisce infine una reificazione degli individui, cui corrisponde all’inverso un personificazione delle cose in quanto gli si attribuisce il potere di determinare irrevocabilmente la sfera sociale. In sintesi, tale pensiero genera una coscienza ideologica nella quale si verifica una inversione tra soggetto e oggetto.
Il proletariato combatte teoricamente e praticamente questa ideologia in tutte le sue espressioni, partendo dall’idea pratica che i beni che essi producono, quindi la vita e la società, non sono entità autonome ma un prodotto sociale di rapporti sociali, e in particolare dei rapporti di produzione, cioè del lavoro sociale. Cioè, se per oggetto si intende non solo i prodotti materiali ma qualsiasi prodotto sociale, i rapporti sociali non sono oggetti, ma al contrario gli oggetti sono prodotti sociali: questa in estrema sintesi il contenuto del pensiero rivoluzionario.
Ma il pensiero rivoluzionario è anch’esso suscettibile a trasformarsi in ideologia. Infatti il riconoscimento del lavoro sociale quale fondamento delle categorie economiche e in generale delle categorie sociali, può avere due esiti opposti, secondo che il lavoro sociale venga reificato o considerato come base di un processo di socializzazione. Il primo punto di vista è quello borghese, in cui il lavoro viene considerato fondamentalmente come attività individuale, condizione necessaria alla sua quantificazione, quindi alla sua trasformazione in lavoro salariato. Tale punto di vista, cioè la teoria del valore dei classici, visione frutto del pensiero scientifico borghese, quindi solo parzialmente ideologico, ha corso limitatamente agli esordi del modo di produzione capitalistico quando la borghesia è ancora rivoluzionaria. Tale teoria, parzialmente materialista, viene poi abbandonata dalla borghesia quando, assurta al potere, diviene conservatrice. La nuova teoria marginalista, totalmente quantitativa, completa la reificazione del pensiero economico borghese. Ma la legge del valore in quanto teoria quantitativa è solo in parte reificata e per questo fatta propria in parte dal proletariato. Marx stesso la condivide e ne sviluppa il contenuto considerando però il lavoro soprattutto come rapporto sociale, quindi anche il valore, considerando che il lavoro quantitativo, la negazione del lavoro sociale, è la base dello scambio, quindi della proprietà privata. Ma con ciò rimane coinvolto in non poche contraddizioni in quanto non abbandona il punto di vista quantitativo.
Il secondo punto di vista è quello del proletariato, quello che si sviluppa con il progredire del lavoro sociale ad opera del capitale, come cooperazione manifatturiera. Ma il lavoro sociale nel capitale si sviluppa anche come antagonismo nel luogo della produzione. In realtà riconoscere nel lavoro sociale il fondamento dell’economia, significa, dato il carattere conflittuale del lavoro sociale alienato, cioè reificato, questa base nel conflitto sociale. In particolare significa riconoscere nel conflitto la base del valore.
Ma il lavoro sociale è il punto di snodo di molte altre contraddizioni. Infatti la dicotomia del rapporto di produzione capitalistico in un rapporto di scambio che si svolge nella circolazione e in un rapporto di produzione materiale, in senso stretto, ha nel lavoro l’elemento comune ma non unificante. Infatti nello scambio il lavoro sociale compare come elemento quantitativo ed individuale, quindi in forma reificata. Mentre nella sfera produttiva si presenta immediatamente come lavoro sociale, quindi in forma qualitativa. Questa qualità sociale, sebbene questa qualità sia negata dal capitale, mentre viene costantemente riaffermata dalla forza lavoro sia all’interno del sistema come rivendicazioni salariali e normative, sia come pratica all’esterno, pratica sottratta ad esso e sovente rivolta contro di esso. Cioè la socialità del lavoro si manifesta nel proletariato fuori e contro il capitale come uso alternativo delle macchine al fine di “rubare” tempo di lavoro e al limite sabotare la produzione.
Quanto alla scienza economica capitalista più recente, quella marginalista, essa si è sviluppata accentuando la sua reificazione, cioè il carattere quantitativo, fino ad attribuire allo scambio il magico potere di determinare nel sistema economico borghese uno stato di equilibrio. Ne dimostra l’esistenza scientificamente, cioè matematicamente, ma sotto la condizione che i soggetti economici seguano le regole dello scambio, che si riducono infine ad una sola, il riconoscimento reciproco dei soggetti come proprietari. Mentre in realtà ciò che determina i rapporti sociali e quelli economici in particolare nella società di classe, è il contrasto di interessi. Lo stato di equilibrio è quello fra gli interessi di classi contrapposte, quindi è un risultato della dinamica della lotta di classe, in cui entrano fattori diversi, economici ed extraeconomici, quali la forza e l’ideologia, che possono svolgere un ruolo più o meno importante secondo i luoghi e i tempi, ma infine determinanti sono gli interessi di classe in quanto espressione di rapporti sociali. In ultima analisi sono questi i fattori decisivi, i rapporti concreti fra gli individui in una struttura sociale determinata. Quindi attribuire alle cose la proprietà di determinare i rapporti sociali, questa è ideologia, cioè reificazione. Così è anche per la teoria del valore, che determina come fatto oggettivo il valore delle merci, poiché tale valore è in realtà un rapporto sociale. D’altra parte condizione fondamentale per il superamento del capitalismo e l’instaurazione del comunismo è proprio l’abolizione della legge del valore.


Valerio Bertello Torino, ottobre 2011